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giovedì 15 marzo 2012

“Allacciate le cinture”, intervista al pilota Pietro Pallini.

Panorama dal finestrino
BARI - Esistono i mestieri comuni. Poi quelli più impegnativi. Infine, esistono le missioni. Quella del pilota d’aerei è certamente una missione: audace, pericolosa, emozionante, nella quale non sono ammessi errori. Perché gli errori si pagano con la vita, la propria e quella di altre cento persone al di là della porta del cockpit.
Ma se si possiede talento, quando ciò che si fa ci piace anche, allora si diventa i più bravi. È questo il caso di Pietro Pallini, pilota di voli intercontinentali, già
curatore per “Repubblica” della rubrica AltaQuota e direttore della testata giornalistica www.manualedivolo.it. Nel suo libro, “Allacciate le cinture” (Einaudi), Pallini analizza il ruolo del pilota d’aerei civili, le varie fasi del volo e svela anche qualche retroscena sconosciuto ai profani. La narrazione è condotta con grande dovizia di particolari e adottando termini tecnici, ma con una prosa accattivante e scorrevole, fruibile a tutti, costellata di simpatici aneddoti, che svelano ad un tempo la sua semplicità e dall’altro tradiscono il suo essere “toscanaccio”, sempre pronto a sorridere e a sdrammatizzare.
Dimostrando grande disponibilità e gentilezza, ha accettato di scambiare qualche parola con noi.

Partiamo dal suo primo volo in assoluto. Cosa ricorda di quel giorno e con quali compagnie ha volato successivamente?
Il mio primo volo, su un monomotore di produzione italiana (Partenavia P-66), risale al 1977, e se devo essere sincero, non è che mi ricordi molto, a parte l'emozione del distacco da terra di un ammasso metallico che rispondeva ai miei (e dell'istruttore, per dirla tutta) comandi. Ho continuato a volare per una decina di anni su aerei di quel genere facendo un po' di tutto (aero-taxi, lancio paracadutisti, traino striscioni pubblicitari, istruttore di volo), fino al 1987, anno in cui sono entrato in Alitalia. In seguito, ho avuto anche l'occasione di lavorare per due anni all'Air France. Tra i “miei” aerei, l'Airbus A-320 (primo italiano a pilotarlo in linea), l'MD-80, il trimotore MD-11 e il Boeing B-777.

L’undici settembre ha cambiato per sempre la storia dell’umanità e in particolare quella del mondo dell’aviazione. Al di là delle misure di sicurezza adottate a bordo (porte del cockpit blindate, spioncino, sistema di videosorveglianza), cos’è cambiato per i piloti e gli equipaggi?
A prescindere dall'ovvio disagio di dover passare lunghe ore segregati in uno spazio ristretto, il vero cambiamento è stato rappresentato dal crollo di una convinzione: quella di essere comunque utili all'eventuale dirottatore, questo costituiva per noi una garanzia di incolumità, che lasciava aperta la strada di una negoziazione.

Qual è la situazione degli aeroporti italiani relativamente alla sicurezza antiterrorismo e alla logistica in generale?
Le misure di sicurezza antiterrorismo in essere in Italia sono sostanzialmente in linea con quelle di ogni altro paese aeronauticamente evoluto. Per la logistica, intesa in senso lato, ci sarebbe invece ancora molto da fare per raggiungere il grado di efficienza di altri paesi. Oltretutto, la mancanza di un piano-aeroporti a livello nazionale non consente un'adeguata pianificazione, causando spreco di risorse e ritardo di crescita.

Parliamo dunque del disastro di Linate, il più grande disastro aereo avvenuto in Italia. Errore umano, dispositivi inadeguati (mi riferisco al radar di terra fuori uso e alla vernice scolorita del fatale raccordo R5-R6), oppure un’assurda successione di fatalità?
Tutti gli incidenti aerei (e non solo quello di Linate) derivano da una successione di eventi che il profano può definire “fatalità”, ma che in realtà hanno a loro volta motivazioni e fattori scatenanti che sono oggetto delle indagini tecniche condotte dagli enti di sicurezza ad essi delegati. In particolare, per quello che riguarda Linate, la mancanza del radar di terra ha un ruolo del tutto marginale, nel senso che la sua presenza avrebbe forse potuto evitarlo, ma non ha avuto nessun effetto sulla genesi dell'incidente in sé. In questo senso, la non aderenza alle procedure e la segnaletica deficitaria sono senza dubbio da indicare tra i fattori contributivi più importanti.

E invece la catastrofe del volo AF447, il Rio-Parigi operato dall’Air France?
Anche se il rapporto definitivo non è ancora uscito, pare ormai appurato che i due fattori predominanti siano da ricercare nell'inadeguatezza del sistema di sonde delegato a misurare la velocità dell'aereo e nello scarso addestramento dei piloti a fronteggiare una situazione di volo in condizioni degradate. In questa ottica non ha senso parlare, come molti hanno fatto, di errore dei piloti: sarebbe come accusare un guidatore addestrato su una macchina dotata di cambio automatico di non sapere scalare marcia senza “grattare” su una vecchia 500 FIAT.
Mi preme comunque ricordare che le indagini che seguono un incidente aereo non hanno lo scopo di trovare colpevoli, ma quello di ricercare cause e stabilire misure correttive. La domanda alla quale l'inchiesta tecnica cerca di rispondere non è “di chi è la colpa?”, ma “cosa si deve fare perché non accada più?”.

Il mese scorso, sul Varsavia-Praga, uno dei due piloti è morto durante il volo. L’altro è riuscito a far atterrare l’aereo. A prescindere, secondo lei sarebbe opportuno addestrare l’equipaggio a emergenze del genere, oppure è sufficiente uno dei due piloti in casi come quello?
Un'emergenza di questo tipo è definita “crew incapacitation” e l'addestramento ad affrontarla fa parte del normale iter formativo di un pilota di linea. I moderni liner sono concepiti per essere pilotati in due, ma ci si addestra anche a riportarli a terra da soli. Ovviamente ci sono procedure e check-list specifiche da seguire: in particolare occorrerà, con la collaborazione degli enti di controllo, organizzarsi in modo di avere a disposizione più tempo per configurare correttamente l'aereo per le fasi finali del volo.

La storia di Thomas Salme è alquanto curiosa. Viene assunto da AirOne in qualità di pilota: accumula 11000 ore di volo in tredici anni con varie compagnie, senza mai un ritardo né incidenti. Un bel giorno si accorgono che il brevetto non l’ha mai avuto: lo multano, lo cacciano e lo arrestano. Va bene punire la furbizia, ma quando ci si imbatte in un pilota realmente bravo, non si può chiudere un occhio?
Rispondo con una domanda: quanti si farebbero operare al cuore da un praticone in possesso solo di un diploma di scuola media inferiore, solo perché fino a ieri gli è andata bene e non ha mai fatto un morto? Il vero problema è: come mai un'organizzazione che è delegata quasi esclusivamente a controllare questo genere di cose non si è accorta di niente?

Ultima domanda: quali sono, in Italia e nel mondo, gli aeroporti nei quali è più difficoltoso atterrare?
Il più famoso di tutti era il vecchio aeroporto di Hong Kong, il Kai-Tak, che conoscevo abbastanza bene: si atterrava dopo una virata a bassissima quota, tra mare e colline, rasentando i grattacieli. In Italia possiamo citare (elenco alfabetico e non esaustivo) Firenze, Genova, Napoli, Palermo e Reggio Calabria. In generale, tutti gli aeroporti posti in prossimità di montagne e/o mare richiedono un impegno maggiore, in considerazione soprattutto dell'estrema variabilità meteorologica e della presenza di raffiche di vento. Su molti di questi aeroporti si può atterrare solo se si è seguito un addestramento specifico.

Ringraziamo il comandante Pietro Pallini per la sua disponibilità con il Corriere delle Puglie e gli formuliamo i nostri migliori auguri per tutto.